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Reviews

​​Maurizio Pometti

di Rosa Anna Musumeci

Critica d'arte, curatrice e gallerista

Maurizio Pometti propone una ricognizione sulla memoria, non solo autobiografica o familiare. All’inverso della fotografia, e degli illustri precedenti che mirano esclusivamente a cristallizzare un qualche passato o esperienza personale, la sua narrazione sconfina spesso nell’anonimato o, meglio, mimetizza l’identità dell’artista nell’interpretazione data ad oggetti disparati e dal contenuto rigorosamente simbolico. 

Una sovrapposizione di autore ed opera viene così veicolata da immagini manipolate, alternando osservazione e trasfigurazione onirica ed evocando contraddittorie reazioni di riconoscimento e disconoscimento. La sospensione fra le due annulla realismo e irrealtà spazio-temporali e chiede allo spettatore di entrare e vivere esclusivamente nella dimensione attuale dell’opera. Debordando nell’ambiente dell’installazione con i suoi segni e disegni sui muri circostanti, Pometti materializza questa esclusività annettendo il contesto fisico al testo artistico.

​​Maurizio Pometti

di Eleonora Bianchi

Critica d'arte e curatrice

Frammenti recuperati da vecchi album impolverati di fotografie ingiallite, sciupate dal tempo,uniche testimonianze di vite passate, sconosciute e forse dimenticate. A loro Maurizio Pometti cerca di restituire la bellezza della vita, una bellezza malinconica, intrisa di quella nostalgia che ci invita a immaginare la vita dei soggetti, i loro dubbi, le loro emozioni, le storie che quelle fotografie abbozzano ma non raccontano mai del tutto. Giochi di sguardi e sorrisi complici che dicono tutto e non dicono niente, troppo lontani per raccontare storie certe, ma abbastanza da permetterci di inventarne una.

Le pennellate di Pometti sanno di empatia, di passato, di casa della nonna, di festa di compleanno delle elementari e della notte prima degli esami. Non importa il soggetto – noto o meno – perché si carica di Assoluto, si fa universale portatore del Noi, del nostro vissuto e l’artista riesce perfettamente, sempre con educazione e garbo, a riportare in vita dei brandelli che ormai di vita non ne hanno più.

La sua è pittura nel senso più puro e innocente del termine, confortante nel suo figurativismo, ma solo apparentemente rassicurante. Dietro di lei, infatti, si celano – o noi stessi celiamo – ricordi, mostri, saudadi che caricano i dipinti di valori altri. Il gioco non è nelle mani di Pometti, né nelle fotografie alle quali si ispira e che si reincarnano e rigenerano nella dimensione del quadro: è tutto nella nostra mente. Una continua sindrome di Proust che rende il dipinto così esageratamente emotivo in quel taglia e incolla di dettagli, volti, sguardi.

L’artista entra in punta di piedi nelle scene di una vita che non gli appartiene. E noi siamo appena

dietro di lui, spettatori non paganti di uno spettacolo che non siamo autorizzati a guardare. Ci infiliamo in un gioco di sguardi in cui non siamo nemmeno considerati, al quale, però, attribuiamo i nostri sguardi, i nostri dubbi, i nostri forse, i nostri chissà, schiavi della Sehnsucht, della potenzialità delle nostre azioni e dell’eco dei nostri rimpianti.

Se la Pittura rende

(ancora) vivi ricordi sfumati

di Matteo Galbiati

Critico d’arte

 

Fissare per sempre in modo chiaro e nitido le memorie e i ricordi di volti e luoghi, di momenti e fatti, sembrava una missione definitivamente compiuta e conclusa con l’avvento della foto- grafia. Le sue immagini, chiare, tangibili e nette, avevano dato a tutti, fin dalle prime sue prove, l’illusione di una perfezione che nessun altro artista avrebbe mai raggiunto, nemmeno i più ca- paci. La fotografia è sembrata subito un’alternativa a quella pittura a cui, per millenni, l’uomo si era rivolto per fissare le proprie testimonianze visive. Oggi, nonostante siamo nel pieno dei tempi della società dell’immagine, sappiamo non essere affatto vero questo assunto e non solo la pittura non è un codice espressivo morto o sconfitto, ma è anche stato completamente “riscoperto” alla luce di una sua, forse, inattesa attualità. Più necessariamente evocativa, che non strumentale accessorio alla moda come è stato per alcuni autori (?) di un recente passato. Maurizio Pometti si inserisce perfettamente in quel con- testo di artisti che si sono, invece, impegnati a concedere alla pittura – nel suo caso specifico a quella iconica, non astratta – il beneficio del dubbio, la possibilità di poter ancora essere mezzo narrante, presidio dell’emblematica tenacia di simbologie ed emozioni non processate completamente dalla nostra contemporaneità o dalla più superficiale attestazione dettata dal senso del veridico e del verosimile. Le sue immagini silenziose affermano quella parte nascosta del nostro sentire che è quella che ci restituisce la nostra umanità migliore, capace di non smentire, non vergognarsi, non nascondere la necessità dei sentimenti. Pometti lo fa con delicatezza risoluta, con garbo certo, con un piglio che appare dismesso, casuale, ma è esito di un’attenzione e una cura sentite e partecipate fin nel profondo delle loro ragioni.

Il suo gesto sbrigativo, composto in pennellate evidenti che sollecitano il colore, le sue vibrazioni e le sue sfumature ad una loro continua ricomposizione, preleva memorie da vecchie fotografie e le affranca a una diversa condivisione nell’interpretazione agita, sollecitata, dai suoi stessi passaggi cromatici. Dopo un conturbante e virtuoso esercizio di ampie cromie, nelle opere più recenti Pometti restringe la sua tavolozza, la riduce e si accosta ad una tendenza monocroma in cui la variazione di un solo colore deve stabilire l’unicità multiforme dei confini dilatati delle sue immagini. Quanto appare sulla tela diventa il prezioso lasciapassare che trasferisce dalla fotografia, circostanziata, privata, immobile e immutata, il susseguirsi di un racconto che si apre e attiva accogliendo l’emozione di altri sguardi diversi dal suo grazie al potenziale espressivo del medium pittorico così concepito. Privato e pubblico, individuale e universale smarginano i propri limiti e confini e travasano nella ricchezza – inattesa e imponderabile – dell’immagine pittorica, che emancipa la visione dalla contemplazione all’emozione dell’esperienza, un valore sensibile multiforme e sempre variabile.

L’accoglimento istintivo di quanto colto nelle sue tele pone la narrativa dell’immagine pittorica ad un livello superiore di em- patia con lo sguardo del pubblico proprio sottolineando la compromissione esplicita con il vissuto singolare di ciascuno. La pittura di Pometti ci affascina, ci sorprende, ci incalza con il potere del suo silenzio che, tra composizione e dissoluzione, afferma indelebile nelle nostre coscienze la forza trascinante dei nostri ricordi ritornati ad essere immagini presenti davanti a noi. Reali non perché iconicamente veri, ma perché sensibilmente avvolti della delicatezza e della grazia del nostro sentire.​

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Residenza d'artista Villa Greppi - Maurizio Pometti

Simona Bartolena

Storica e critica d’arte

 

C’è qualcosa che proviene dal passato nei dipinti di Maurizio Pometti: un’eco, un filo che si intreccia nella memoria (individuale e collettiva) e che appartiene alla storia del nostro Paese. Un racconto tutto italiano. Un’atmosfera e un’iconografia che hanno il sapore di un romanzo storico, di un film neorealista, di qualcosa che ci appartiene, un ricordo sfocato eppure persistente.
Non per caso tra i propri riferimenti letterari Pometti cita Il giovane Holden – il romanzo di formazione per eccellenza – e Il Gattopardo – vera e propria icona della sua regione d’origine: la Sicilia. “Nella mia pittura cerco di recuperare il valore del ricordo dove l’uomo, sempre al centro della scena, vive un luogo che accomuna tutti noi”, spiega l’artista stesso, “Credo che ogni luogo sia contaminato dalle nostre esperienze, dal nostro vissuto e dagli avvenimenti che uniscono le nostre vite come un filo trasparente”.

Le opere di Pometti partono da fotografie raccolta qua e là. Non importa chi siano i protagonisti di quelle foto: l’immagine, fissata dall’obiettivo, supera l’esistenza stessa dell’individuo immortalato, si fa assoluta, continua a vivere autonomamente. I corpi e i volti di persone che Maurizio non ha mai conosciuto, diventano soggetto per il suo universo pittorico. Corpi e volti che non hanno più uno spazio- tempo, che paiono sospesi in un luogo rarefatto e suggestivo, plasmate nella materia dei sogni o di lontani ricordi. Il monocromo azzurro, questa particolare gamma cromatica sulla quale Pometti insiste, rende questa sensazione ancor più profonda, proiettando chi osserva il dipinto in una dimensione altra, atemporale, da una parte famigliare, dall’altra distante e immaginifica.

Anche per lui, l’esperienza in Villa Greppi non sta passando senza lasciare tracce sulla sua pittura. Pur restando fedele alla sua cifra stilistica e ai propri soggetti, nei lavori realizzati nel periodo di residenza Pometti ha osato una pennellata più decisa e definita, che incide maggiormente i contorni delle figure, accentuandone la plasticità. Egli ha, inoltre, avuto occasione di riflettere sul valore del paesaggio. Sedotto dalla magia del parco della Villa (e forse anche dai disegni di Alessandro Greppi, fonte di ispirazione e “nume tutelare” di buona parte dei residenti del progetto!), Maurizio ha cominciato a sperimentare il tema del paesaggio naturale, in opere pensate in dialogo – quasi a formare dei dittici – con le sue composizioni con figure.

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DIALOGHI SICILIANI - Dimensione astratta, un orizzonte sensibile | Corpo emotivo, un luogo di incontro

Francesca Spadacini, studentessa del corso di Comunicazione Espositiva dell'Accademia Santa Giulia (prof. Matteo Galbiati)

 

Dedizione e perseveranza sono le due parole chiave che contraddistinguono al meglio l’attitudine di Maurizio Pometti per la pittura.

La sua poetica ha da sempre mirato a una figurazione che lega l’immagine pittorica alla memoria. Nei suoi primi dipinti ritrae soggetti, sia maschili che femminili, in cui lui si identifica e in cui trova riscontro in un’empatia fisica e mentale, di fragilità e debolezza.

La realizzazione di una sua opera si origina da spunti che si avvicinano in alcune alle fotografie, in altri ai disegni o spesso, l’immagine pensata si trasferisce direttamente al dipinto. Ѐ comunque l’idea il principio che guida la creazione dell’opera; è il dipinto che prende vita e l’artista sottostà al volere della tela.

Il primo Lockdown gli ha permesso di riflettere in un modo del tutto diverso dalla solita modalità con cui affrontava la pittura, portandolo a concentrarsi sulla rottura di quegli schemi con cui era sempre stato abituato a lavorare. La chiusura forzata, il maggior tempo a disposizione e l’isolamento lo hanno portato a interrogarsi su se stesso e così ha iniziato a sottrarre, decontestualizzare e liberare le figure in uno spazio vuoto, bianco. Questo sfondo neutro, sinonimo di libertà e silenzio, è piatto e senza tratti distintivi a livello di scrittura pittorica, ma resta potenzialmente attivo. Il dato tecnico resta comunque per lui fondamentale: nell’unica figura mantiene viva la precisione e la cura per i dettagli che ha sempre avuto in tutti i suoi dipinti.

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Maurizio Pometti

di Michele Lasala

Critico d'arte

 

Maurizio Pometti è un pittore che sente la vita anche nelle cose più piccole. Uno sguardo, un abbraccio, un sorriso, sono sufficienti e bastano per cogliere la bellezza dell’esistere. Raccontando i momenti più lieti del vivere, attraversati pur sempre da una sottile malinconia di fondo, Pometti richiama, con la sua delicata pittura, Pavese e Cardarelli. Se mi lasci ti tradisco imprigiona per sempre sulla tela un momento destinato per sua natura a svaporare e dissolversi nel nulla. Queste due figure evanescenti sembrano interrompere la tranquillità dentro cui sono immerse con una frase che racchiude il segreto dell’amore, che è legame, tormento, preoccupazione, paura di essere in qualche modo abbandonati. Ma anche vendetta. E Pometti, che non ci dice né il prima né il dopo di questo intimo momento, ci invita a cogliere la bellezza del giorno che passa, perché il domani è incerto, e dell’oggi conserveremo soltanto un fievole ricordo. 

Premio ArtiVisive San Fedele 2019 – 2021 – L’umano e il divino, l’avventura della libertà

Se poi all’improvviso appare un cervo…

di Matteo Galbiati

Critico d’arte

 

La riflessione sulla libertà seguita da Maurizio Pometti nasce tutta dentro le ragioni del suo essere artista e del suo fare pittura. Una pittura figurativa. Una pittura che è sempre stata intrisa di ricordi, di esperienze, di vissuto, prima ancora che di disegno, colore e pennellate. Una pittura capace di tracciare, attraverso le sue immagini, le coordinate di una dialettica narrativa che, partendo da eventi personali, ha poi la forza di rivolgersi, coinvolgendolo, all’altro. In questo il concorso complice della memoria e della fotografia è mezzo per dare chiarezza, per orientare le intenzioni sensibili per predisporle a soddisfare il senso di quanto il quadro ha da esprimere.

Poi una frattura. Anche per Pometti, come per tutti quanti noi, il Covid-19 è stato un momento di cesura netta che, segnando un prima e un dopo, pur senza impedirgli di lavorare, lo ha portato a riflettere prevalentemente su se stesso e sul senso del suo “raffigurare”. Così i termini del suo dipingere hanno lentamente introdotto nuovi elementi strutturali che hanno imposto un’estetica differente e una logica diversa. L’edulcorata precisione sentimentale, , sincera e piena di affetti, che ha governato la sua mano, ha lasciato il posto ad una più concettuale monocromia, dove i passaggi tonali sono diventati più concisi, stretti in una variazione minima, e il vuoto ha conquistato la maggior parte della superficie.

Questo isolamento della figura, questa costrizione entro il nulla apparente, per le sue intenzioni, si sono trasformati in una nuova conquistata libertà che ha emancipato il narrare della pittura ad una dimensione più introspettiva, silenziosa e mentale. La libertà della riflessione ha spinto Pometti a porre l’immagine dipinta in una dimensione non più legata alla visione, ma ora inserita in un luogo assoluto che mette lo sguardo nella condizione di doversi confrontare con il peso vero della percezione. Gli elementi appaiono, affiorano (o si immergono?) nella tormenta – perché densa di sentimenti del suo (nostro) sottopelle – atmosfera di quiete assunta dal colore. La liberazione avviene, quindi, per assenza e il garbo nel sottrarre porta l’ampiezza del respiro di una decontestualizzazione priva di vincoli, orientamento e direzioni nette.

Senza rinunciare a elementi iconografici che gli sono cari e propri, in What else is there? – opera che costituisce un passaggio nella poetica del giovane artista siciliano – tre cervi compaiono in tutta la loro labile e impalpabile consistenza. Tutto appare come offuscato, inafferrabile, nebuloso, eppure si fa certo per la sua forza iconografica, per la potenza, in lui nuova in tali termini, del simbolo. Del bene che vince sul male, dello spirituale che allenta la morsa del materiale. L’occhio cerca e scruta per accedere, con consapevolezza, ad una conoscenza silente che sa essere, con più decisione, abilitata e liberata dalla sua pittura. Certamente è una libertà legata tanto all’individuale arbitrio, ma anche al destino che, scritto per noi, ci riserva sempre le sue sorprese inattese. Allora la libertà è, per questa pittura, quella di diventare, come mai prima, uno straordinario momento di riflessione personale e intima.

 

Giorgio Seveso 

Storico e critico d’arte

 

Il suo lavoro pittorico risulta al primo sguardo quasi tradizionale e descrittivo, con una narrazione priva di sussulti, tranquillamente figurale. Ma alla durata, nella contemplazione non distratta o superficiale, svela insondabili slogature, tremiti, ambiguità delicate e ricercate, tormenti e profondità sovrapposte.

Che siano scene familiari e della sua infanzia, che siano vecchie fotografie ritrovate, fotogrammi della memoria, flash improvvisi sullo schermo di un tempo domestico e quotidiano o sul tessuto magico di evocazioni fantasmagoriche, queste sue immagini hanno vita, durata e spessore di metafora in ambientazioni cristallizzate e nebbiose, sospese in un istante come d'infinito, fortemente e ambiguamente evocative. E un ritrovamento delle ragioni fondative della pittura, una calma e ispirata passione di ricerca sulle ragioni della memoria e della realtà.

 

LIGABUE, la figura ritrovata

dal testo su Maurizio Pometti

Alessia Calzoni, Melissa Freti, Joëlle Lupi e Lorenza Romeo, studentesse del corso di Didattica dei Linguaggi Artistici (prof.Matteo Galbiati), Accademia di Belle Arti di Brescia SantaGiulia

 

Una pittura che diventa lo specchio di memorie lontane, il mormorio e l'ombra di un ricordo labile e incerto attraverso cui l'artista ripercorre il suo vissuto personale, compiendo un cammino all'interno della sua più intima coscienza, affrontando le più recondite paure.

La produzione artistica di Maurizio Pometti risulta delicata e ricercata, ma allo stesso tempo notevolmente tormentata, ripercorrendo scene familiari e della sua infanzia che hanno luogo in ambientazioni cristallizzate in un istante infinito, il quale porta con sé sentimenti, sensazioni e reminiscenze passate che affiorano nel presente. Queste atmosfere, sono rese attraverso una materia corposa, nervosa, dura e segnica; un tratto denso, applicato con un tocco veloce e sintetico che definisce, ma allo stesso tempo dissolve, generando universi onirici in cui il dato reale viene rielaborato attraverso le sue esperienze. La fotografia - dalla quale prende ispirazione - risulta, infatti, l'elemento preparatorio che lo conduce all'opera finale; talora invece il gesto creativo è dettato da un atto impulsivo che plasma paesaggi muti, abitati da individui enigmatici, immobili e silenti che si integrano completamente nello spazio vuoto ed ovattato, dove si percepisce un forte senso di smarrimento. L'approfondita indagine interiore e l'accettazione del proprio essere vengono portate avanti nella riflessione pittorica dell'artista, dando origine a figure che rispecchiano le sue (e nostre) più profonde fragilità e insicurezze. Queste sono intrise di un forte senso di nostalgia per il tempo trascorso, per quella gioiosa fanciullezza finita che riemerge prepotentemente nella malinconica  consapevolezza dei giorni ormai perduti e della loro limitata esistenza a quel lontano momento della vita: gli occhi allegri e spensierati di un bambino che sorride, ma che rivela tutta la sua sofferenza. Attraverso la tela e la carta si manifestano il timore e la rievocazione di una sofferta perdita delle persone amate, le quali hanno contribuito a dare forma a queste immagini sospese che popolano la mente di Pometti e si traducono in nuove immagini e relative nuove sensazioni e sentimenti. 

Emblematiche sono, tra i soggetti rappresentati, le misteriose apparizioni di cervi, simboli della forza istintiva del corpo e dell'anima che incarnano il passaggio tra il mondo terreno e quello spirituale. Guardandole si viene attratti da una narrazione che diventa universale e che, come un emozionale richiamo, sollecita le corde che risuonano nella più celata interiorità umana.

Una storia che viene fatta proprio da ogni uomo che, commosso, ritrova se stesso a confrontarsi con un attonito presente.

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Diario di bordo - cronaca di una pandemia

Rocco Giudice

Critico d'arte

Nell'opera che ci è nota di Maurizio Pometti, nulla è così prossimo a un coinvolgimento intenso quanto straniante come la figuratività monocroma che il pittore affida al grigio, al virare monodico dei suoi timbri, i cui esiti, però, giungono vicino agli effetti di gradienti fotografici che il tempo ripassa ritoccando di propria mano l'immagine. Le suggestioni che vi hanno luogo e quelle che innescano sembrano agire solo attraverso una pressione costante, che sembra denotare di per sé una certa freddezza d'approccio, di voluto distacco: ma è come la copertura che ne dissimula le risonanze, le variazioni nascoste, che vi confluiscono dalle direzioni meno scontate di quelle cui può fare pensare il contenuto iconico immediato. Solo così, solo in questo range visivo, non altrimenti o altrove, possono manifestarsi quegli addendi sensibili della cosa sentita prima che vista, vissuta senza che nulla di preesistente o premeditato vi abbia concorso o preso parte, che una rinnovata tensione evocativa attinge dal versante direttamente figurativo dei suoi lavori. E una figurazione che sembra derivare da un grado di astrazione tanto del segno che della memoria, quasi essa ne fosse la matrice, tuttavia, da certificare più del dato visivo che è documentato dal dipinto. È così che quelle figure assumono un rilievo astratto, meno vincolato a un referente quanto più di esso possiedono i tratti e il carattere più facilmente individuabili, evidenti, al limite. Mentre la tonalità del colore risente, seppure non ne sia una conseguenza, di una densità plastica, di un peculiare umore che affiora da una più profonda stratificazione materica che non denota la profondità di una distanza, ma la persistenza di un potenziale figurativo che non è totalmente legato a una immagine, che si afferma da sé, rendendo le figure più credibili, più a portata dei sensi, malgrado, poi, questa fruizione non si lasci dominare dalle loro prescrizioni: e questo conferisce al disegno una incisività che, di nuovo, non è rimessa alla resa mimetica. L'immagine esiste nella memoria come visione, si può dire, più che come ricordo: non è un elemento reale o non importa lo sia perché il segno possa esserne trattenuto, men che meno da un colore che non deve indovinarsi, per esistere per sé. Come se astratto e figurativo, concreto e immaginario, pittura e fotografia, pur afferendo a specifici ambiti, si connettessero, senza che l'uno prevalga sull'altro, in una identica determinazione di sintesi: quella di una forma: che nella pittura non è premessa o risultato, ma originaria autonomia fabulatoria: o una asserzione o la voce soltanto, forse, solo il suo timbro, anzi: l'assunzione di un attimo o di un intero destino prima che un'acquisizione di cui possa vantarsi possesso o conquista - o lamentare l'essere lost, se questo basta a farne il segno di una perdita. Come, appunto, in questo Lost: non può esservi spazio per una storia, per un racconto, anche solo per una metafora: tempo e luogo non si sa che fine abbiano fatto. Sono stati deposti come trucchi, abiti di scena: un teatro di luci, tutte raccolte in una sola luce, protagonista che non ammette comprimari, che non lascia tracce, che tutto dissolve e assorbe, ombre e sfondo, conferendo all'immagine l'assolutezza di una icona, di una permanente istanza di verità cui il ‘resto’, lost, perduto o no, le circostanze, la scena, rendono indubitabile testimonianza.

Ricordo come presenza sopita e perpetua

di Serena Filippini

Critico d’arte

 

Esplorare la produzione artistica di Maurizio Pometti (Catania, 1987) è un’esperienza simile a quella che si può fare entrando in una vecchia mansarda, dove gli oggetti sono fermi da anni ai loro posti e la polvere si è impossessata anche del più piccolo spazio. A dispetto della polvere e dell’immobilità apparente, nel momento in cui ci si comincia a guardare attorno si riscoprono visioni, profumi e sensazioni che riportano alla mente ricordi forse assopiti, ma mai dimenticati. Ci si accorge che quegli oggetti inermi e superficialmente privi di vita, se osservati con lo sguardo rivolto al ricordo di cui essi sono detentori, hanno una propria anima e sono sempre pronti a condurci in un viaggio nel passato: il nostro passato.

Nel lavoro di Pometti il ricordo è una presenza determinante perché parte integrante di ogni soggetto che, con cura e dovizia di particolari, sceglie di dipingere: che sia una persona, un oggetto, un paesaggio o un episodio passato, ogni soggetto assume la sua valenza solo in relazione al suo essere ricordo e quindi, in quanto tale, si mostra contemporaneamente nella sua tridimensionalità e nella sua evanescenza.

In molti casi è la famiglia la fonte d’ispirazione per la realizzazione dei suoi lavori, in altri l’artista stesso che, talvolta, trova un rassicurante sostegno in vecchi album fotografici nei quali riscopre ricordi di momenti passati che stigmatizza e fa rivivere sulla tela, dimostrando una straordinaria abilità nel disegno.

Sebbene le atmosfere appaiano il più delle volte serene e miti, nelle opere dell’artista siciliano vi è sempre una sottile tensione tra nostalgia per il tempo passato e spensieratezza dei giorni trascorsi; si avverte una malinconia scaturita dalla paura di perdere chi ha contribuito a rendere gioiosi i momenti dell’infanzia, ma nello stesso tempo la consapevolezza di avere avuto la fortuna di viverli intensamente insieme ai propri affetti.

Questo inconscio dissidio interiore si traduce molto spesso in opere dalla forte carica cromatica che ad una prima vista, proprio grazie alla vivacità dei colori e spesso alla vividezza delle scene, inducono ad un pensiero gioioso e persino giocoso, ma ad uno sguardo più approfondito lasciano intravedere una velatura che rende tutto meno brillante; un po’ come se all’interno di quella vecchia mansarda uno strato di polvere non avesse lasciato scampo nemmeno a queste immagini, determinato a rammentare che il passato è un tempo finito di cui possiamo soltanto conservare il ricordo.

Dormire con i fantasmi

di Carla Ricevuto

Critico d’arte

 

Il concetto di morte è sconosciuto quando sei piccolo è un qualcosa che non ti appartiene. Ti ritrovi tra le braccia dei tuoi genitori convinto che ti proteggeranno per tutta la vita, che saranno sempre giovani, forti e invincibili. Non scorgi nemmeno un difetto nella loro personalità e la sera ti addormenti percependo il loro respiro sul viso. Nessuna paura e nessun timore fino a quando, improvvisamente, capisci che non ci saranno per sempre, almeno fisicamente, e che un giorno saranno loro ad avere bisogno del tuo respiro sul viso, prima di lasciarti.

Dormire con i fantasmi, per Maurizio Pometti, è un dialogo lento, gestuale – a viso scoperto – con la paura della perdita. Sì, perché attraverso il medium del disegno e della pittura egli ripercorre parti del personale vissuto e scenari della vita dei suoi familiari come se fosse un continuo presente. Rielabora figure, momenti e ricordi li assembla come piccoli frammenti di un puzzle che più si compone, più si scovano pezzi creduti perduti ma che, semplicemente, erano adagiati sul fondo della scatola. Ricostruire un ricordo, per Pometti, è un antidoto che aiuta ad alleviare la sofferenza (futura in questo caso) perché permette di condividere il proprio letto, quasi con rassegnazione, con il tormento dell’inconscio.

Non a caso il percorso dell’artista, in questo preciso momento di ricerca, assume dei toni differenti rispetto al periodo precedente. La palette di grigi e blu, sapientemente adagiata su supporti come carta e tela, conferisce uno stato di evanescenza alle figure e paesaggi rappresentati. Memorie raccontate come sogni, stessa consistenza e stesse sfumature: perché i ricordi non si presentano quasi mai in modo chiaro e limpido, su di essi si adagia, un velo – sudario – che ne altera luce e colori. L’intera opera di Pometti si rivela come un composto di delicatezza e tormento, in memoria di quello che è stato e di ciò che sarà.

Simbolismi d’eccezione sono gli elementi che l’artista usa come narrazione, un fil rouge che mette in scena il teatro della vita vissuta e di come spesso si vorrebbe cambiarne la trama: ecco perché, nelle opere dell’artista, passato e futuro convivono in equilibri mentali.

Il suo lavoro si concede, inoltre, un’ironia che alleggerisce i toni. Se non possiamo modificare un ricordo, perché ormai parte del passato, abbiamo la libertà di modellarlo e alleggerirlo tramite l’ironia. La giocosità di Pometti si esprime in tutte le sue composizioni e in modo particolare negli acquerelli i quali restituiscono al fruitore una fanciullesca innocenza. L’artista si sente libero di mostrare le prove di colore, che sparse sul supporto, diventano parte integrante del ricordo, perché quando sei piccolo non hai paura di mostrarti e non hai paura delle “cose dei grandi”.

Senza farsi male

dal testo di "(fe)male - Il Pluralismo nell'arte"

di Carla Ricevuto

Critico d’arte

 

Corpi in eterno equilibrio tra il bene e il male, tra la felicità e il dolore, tra la sottomissione e la rivincita, tra il sacro e il profano, tra il maschile e il femminile. Senza farsi male è, infatti, il titolo della sezione a lui dedicata. Un titolo che ricorda una carezza ricevuta dopo uno schiaffo, quando ancora la pelle brucia e il rossore tarda a sparire.

Maurizio Pometti guarda molto agli artisti del passato come Piero Della Francesca, Rembrandt e Francisco Goya ma è anche molto legato alle figure di Felice Casorati, Giorgio Morandi e Lucian Freud.

Nell’ambito contemporaneo trae grande ispirazione da maestri come Franco Sarnari8, specialmente per quantoriguarda lo studio del particolare e delle molteplici visioni del corpo frammentato; e alle figure cupe caratterizzate da primi piani stridenti di Michaël Borremans: come in Lily (2017) e Becky (2017), recenti lavori di Borremans che potremmo definire di ascendenza Magrittiana.

Le opere scelte per la mostra esaltano tutta la potenza e bellezza insita nella fragilità umana, continua ricerca dell’artista. L’imperfezione dei corpi per Maurizio è quella sottile bellezza che ci rende unici e in armonia con il mondo circostante.

L’opera, in mostra, che più rappresenta il tema della contraddizione è Non sono un giocattolo (2017). Un trittico caratterizzato dalla presenza dell’autoritratto dell’artista, raffigurato in tre diversi punti di vista, in un atteggiamento comunemente usato nelle fotografie di moda.

La posa è un chiaro riferimento al nostro tempo, che ci vuole perfetti ad ogni costo tramite strati e strati di filtri e pose confezionate, una chiara citazione e il disegno su carta della Barbie, bambola contemporanea, modello da inseguire fin dalla tenera età (ma che Maurizio Pometti trasla in arte per renderla accessibile anche agli uomini, perché se un uomo non può averla, perché considerato giocattolo femminile, allora può disegnarla).

L’artista, nel trittico, rappresenta se stesso con un tutù che ricorda la parte superiore di un carillon (altro interessante tema trattato dall’artista). Il corpo visto come elemento delicato che riesce a proteggersi dai colpi esterni ma non da quelli personali e interni, quelli più difficili da fronteggiare.

Non sono un giocattolo è la traduzione pittorica della continua lotta con se stessi e ricorda la metafora pirandelliana della maschera, come del resto l’opera Fidelio, proposta in mostra anche su carta, che esprime tutta l’esigenza di difendersi ma contemporaneamente di nascondere quella parte inaccessibile e proibita.

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Sensorium

dal testo su Maurizio Pometti

di Giuseppe Carrubba

Critico d’arte

 

Maurizio Pometti indaga la pelle della pittura attraverso percorsi autobiografici, con citazioni e atmosfere del secolo scorso, che sono archetipi di un discorso sospeso, isolato e metafisico.

Sintesi e frammentazione danno vita ad una pittura che vuole mescolare la banalità del quotidiano alla staticità degli antichi, la liricità e il simbolismo per sublimare la paura e l’eros, in una ricerca dove la figura umana contiene moltitudini, enigmi e contraddizioni.

Disegni, pitture e sculture rappresentano l’aspetto tecnico di un linguaggio artistico che trova la sua legittimazione dentro una poetica che trae ispirazione dalla letteratura, dalla filosofia antica, ma anche dalla musica contemporanea, dal cinema e dalle esperienze personali.

Il tema della figura e dell’autoritratto, - che stabilisce una relazione significativa e una ricerca identitaria che coinvolge l’autore, il soggetto e lo spettatore, tra interrogazione, analisi e ripensamento - insieme al discorso pittorico dedicato al corpo umano, rappresentano sessioni teatrali e meccanismi di riparazione, aspetti di una ricerca iconica in cui i particolari, grafici o cromatici, si elevano attraverso l’estetica del frammento, oggetto di riflessione e variazione formale, tra raffinatezza tecnica e sintesi luminosa che porta dentro echi d’infinito. Corpi, ritratti e oggetti sono un pretesto per indagare ed evocare una dimensione concettuale sull’utilizzo del mezzo espressivo, in relazione al soggetto ed alle sue compromissioni spaziali e temporali, introspettive e psicologiche.

L’arte di Pometti si afferma come realtà parallela legata all’immaginazione, come fonte di godimento ancestrale, per ritrovare i propri maestri insieme al linguaggio delle origini, e descrive una condizione necessaria in cui l’artista scava e cerca di superare l’accademismo ed il rigore tecnico per dare forma all’essenza. Un’indagine che trova la sua origine in Piero della Francesca, nella dimensione mitica in cui il doppio ritratto dialoga con la Storia, fino ad arrivare alla riduzione formale del Novecento che da Morandi a Casorati arriva alla disintegrazione di Giacometti e Brancusi, passando per Freud fino a comprendere l’equilibrio e l’azzeramento di Sarnari.

Particolari del corpo e ambientazioni metafisiche, personaggi impassibili e paesaggi vuoti, eleganza geometrica e staticità, sono un modo per dare ordine al mondo ed avvicinarsi alla profondità della bellezza, con una voce che comprende i tormenti dell’uomo e la sacralità laica del gesto sospeso nell’immobilità dell’immagine.

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